Sono in carcere i due presunti scafisti del barcone che si è ribaltato al largo di Malta provocando una ecatombe di migranti (800-850 circa, secondo le ultime stime dell’ONU). Si tratta di un tunisino di 27 anni, ritenuto il comandante del peschereccio naufragato, e di un siriano 25enne, suo assistente di bordo.
Nei prossimi giorni saranno interrogati dal Gip che dovrà decidere sulla convalida del provvedimento restrittivo e sulla contemporanea emissione di un’ordinanza di custodia cautelare. Rischiano l’imputazione per i reati di omicidio plurimo, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e naufragio.
Sono stati identificati grazie alle testimonianze degli altri 26 sopravvissuti con cui sono riusciti a mettersi in salvo: la maggior parte degli scampati al naufragio si trova ora presso il Cara (Centro Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Mineo (Catania), e ha reso dichiarazioni agli investigatori del Servizio centrale perativo di Roma e della squadra mobile di Catania.
Dalle testimonianze dei superstiti emergono nuovi agghiaccianti particolari sulla strage dei migranti: il comandante – secondo il racconto di un minore di origine somale, Said di 16 anni – non avrebbe fatto altro che bere alcool e fumare hashish durante tutto il viaggio, cominciato sabato mattina da un porto libico.
Sempre il timoniere alla fine avrebbe causato la collisione con il mercantile portoghese King Jacob arrivato vicino al barcone per prestare soccorso, sabato sera intorno alle 22.
A quel punto a bordo è scoppiato il panico: «tutti hanno iniziato ad agitarsi – hanno raccontato i migranti – quelli che erano più in basso hanno solo sentito l’urto ma non vedevano niente e volevano salire. Alcuni di quelli che erano sul ponte sono finiti in acqua subito. La barca ha cominciato a muoversi sempre di più e poi si è rivoltata».
La tratta degli schiavi è ricominciata. La gestiscono uomini senza scrupoli, che sulle coste libiche in nome di un profitto squallido e disumano stanno ammassando centinaia e centinaia di altri uomini, tenendoli segregati e imprigionati per giorni prima di farli partire, in cambio di migliaia di dollari – o dinari libici, poco importa, per i viaggi della speranza attraverso il Mediterraneo. Viaggi che spesso si trasformano in appuntamenti con la morte, come accaduto domenica notte.