Paolo Borsellino sapeva che prima o poi la mafia l’avrebbe ucciso; le sue previsioni si avverarono nel luglio del 1992 a seguito di quella che sarebbe passata alla storia come la “Strage di via D’Amelio“, organizzata da Totò Riina che intercettava le telefonate del giudice.
Paolo Borsellino nutriva un amore profondo per la giustizia e la verità; lo dimostrò mettendo a repentaglio la sua vita per combattere la piaga tutta italiana della mafia. Gli esponenti di spicco dei vari clan temevano le sue azioni e, come per Giovanni Falcone e Rocco Chinnici, cercavano il modo di liberarsene.
Fu Totò Riina a trovare la soluzione ai problemi dei malviventi e delle istituzioni colluse con la mafia. Da tempo il suo clan intercettava le telefonate di Paolo Borsellino. Il giudice di solito, conscio dei pericoli che correva, stava molto attento a ciò che diceva per telefono.
Quell’unica volta che, per un attimo di distrazione o per voglia di condurre una vita normale, si lasciò sfuggire dei particolari di troppo gli fu fatale. Paolo Borsellino aveva infatti promesso alla madre che l’indomani le avrebbe fatto visita intorno alle 17 .
Totò Riina colse l’occasione. Ordinò ai suoi fedelissimi di piazzare l’esplosivo sotto la 126 che funse da autobomba. Il giorno dopo Paolo Borsellino, ligio alla promessa fatta, si recò puntuale dalla madre allora residente in Via D’Amelio.
Il giudice ebbe appena il tempo di suonare al citofono. La donna, strazio su strazio, poté ascoltare il fragore dell’esplosione che la privò per sempre di suo figlio Paolo. L’innesco, per ammissione del boss della mafia, sarebbe dipeso proprio dalla pressione del dito sul pulsante del citofono.
L’apparecchio era infatti collegato alla bomba per mezzo di un telecomando. Le suddette notizie derivano da una intercettazione ambientale ai danni di Totò Riina. Egli avrebbe rivelato, senza alcun pentimento, la genesi della strage di Via D’Amelio e gli ultimi istanti di Paolo Borsellino.